Una cavalcata attraverso mezzo secolo d’arte (1968-2020)
Per sostenere in breve questa lunga cavalcata potrebbe essere utile il ricorso allo schema trinitario ideato dal filosofo Hegel, quello che passa attraverso tre fasi: la tesi, l’antitesi e finalmente una sintesi finale.
Nel caso nostro, la tesi è la situazione del ’68, espressa nel modo migliore dall’artista statunitense Joseph Kosuth, che ci ha insegnato che per rappresentare una sedia, ci possono essere tre modi giusti, prendere la sedia stessa e attaccarla alla parete, seguendo la prassi inventata da Duchamp, del ready made. Oppure offrine una foto, o infine prendere da un vocabolario la definizione dell’oggetto e attaccare anche questa alla parete, in forma di scrittura. Vietato in genere fare un disegno o un dipinto di quella cosa. Fu infatti il momento che si disse anche della “morte dell’arte”, ma in senso tecnico, in cui cioè era vietato dipingere col pennello.
Fu la fase di tanti movimenti: Minimalismo, arte concettuale, Body art eccetera. In Italia questo clima fu espresso molto bene dalla cosiddetta Arte povera. Ma poi dal seno stesso di quel movimento scattò il suo contrario, cioè l’antitesi. Artisti come Giulio Paolini si misero a civettare col museo andando a recuperare vecchie immagini. Presso di noi, i due artisti che coltivarono al meglio quella che si disse anche mode rétro furono Luigi Ontani e Salvo; seguiti a ruota da quelli che si chiamarono, col nome perfettamente appropriato di Anacronisti, tra cui primeggiò Carlo Mariani, che fingeva di essere un copista di capolavori in realtà inesistenti. Accanto a Ontani e Salvo, io sviluppai il gruppo dei Nuovi-nuovi; mentre Achille Bonito Oliva diede luogo alla Transavanguardia, i cui protagonisti si ispiravano soprattutto ai Tedeschi di quel momento, detti Neuen Wilden. Ma le varie situazioni durano non più di una decina d’anni, quindi scattò una nuova fase che potremmo dire, sempre in termini hegeliani, della sintesi, ovvero saltarono fuori artisti che prendevano motivi e soluzioni dal movimento del ’68, ma nello stesso tempo li rendevano aggraziati con qualche tocco di recupero dall’antico. Tutto questo rispondeva a una situazione sociologica che ci vedeva alla ricerca, non di oggetti di prima necessità come avveniva ai tempi della Pop Art, bensì di oggetti ben accessoriati, ricchi di soluzioni e di optional, per cui in quel momento le auto erano diverse le une dalle altre.
Io curai la sezione dell’Aperto alla Biennale di Venezia del 1990, dove trionfò Jeff Koons, che si può considerare come il miglior rappresentante di questa sintesi. Ma si può anche adottare un termine diverso, quello di glocalismo, in quanto, forse per la prima volta nella storia del genere umano, gli uomini e le donne di ogni paese hanno adottato gli stessi strumenti, in una situazione di globalismo, però rivolgendoli al recupero delle tradizioni e radici locali, per cui un giapponese è diverso da un iraniano, da un sudamericano e così via.
Chiudo questa sfilata mostrandovi attraverso diapositive, una serie di questi bellissimi effetti di glocalismo, dove gli strumenti sono comuni, ma ognuno li rivolge a recuperare l’anima della propria storia. Del resto, andate a visitare l’attuale Biennale di Venezia e ne vedrete tanti bellissimi effetti. (Renato Barilli)